FATIMA E LE ALTRE IN CERCA DI CIBO
Di Celine Schmitt – luglio 2014
Foto:Unhcr/ C. Fohlen
Iriba, Ciad – Mentre il sole tramonta su questa remota cittadina nel Ciad orientale, decine di donne rifugiate sudanesi si raccolgono sotto un grande albero dove passeranno la notte. Cercano lavoro al di fuori del campo profughi di Iridimi per mantenere le proprie famiglie.
Dall’inizio del 2013, oltre 300.000 rifugiati in Ciad lottano per far fronte a una riduzione del 60 per cento delle razioni alimentari quotidiane causata da un deficit di finanziamento per il Programma Alimentare Mondiale (PAM).
Sono venuta qui per saperne di piu’ di questa situazione. Le donne e le ragazze accettano qualsiasi lavoro, puliscono le case, fanno il bucato, vanno a prendere l’acqua e la legna da ardere, lavorano nei siti in costruzione. Ogni sera, si riuniscono di nuovo sotto l’albero, mettono insieme tutte le scarse risorse per un pasto comune e vanno a dormire sul terreno duro. E ogni mattina, si incamminano per le strade polverose di Iriba in cerca di lavoro.
“Abbiamo veramente bisogno di soldi, è per questo che siamo venute a lavorare qui”, dice Fatima,16 anni. “Camminiamo per la città e le persone ci chiamano per lavorare. Prepariamo argilla per pareti, facciamo dei mattoni e costruiamo muri. A volte, ci viene chiesto di distruggere i capannoni e costruirne di nuovi. Prendiamo la ghiaia nella boscaglia per rendere i cortili gradevoli. Tagliamo anche il legno. Laviamo i vestiti, andiamo al mercato a fare la spesa. Andiamo anche a prendere l’acqua”.
Per lavorare come domestica, Fatima guadagna tra le due e le dieci sterline sudanesi al giorno – meno di 1.75 dollari. Per i lavori di costruzione pagano meglio: fino a 20 sterline sudanesi, o $ 3,50 al giorno. Ma anche quando trovano lavoro, le donne e le ragazze si trovano spesso ad essere sfruttate o truffate dai loro datori di lavoro.
“Alcune delle donne per cui lavoriamo sono cattive”, dice Fatima. “Ci mandano via senza pagarci dopo che abbiamo finito di lavorare”. Per due giorni di fila, ha lavorato come domestica per una famiglia locale, ma non è stata pagata. Ora non ha soldi per contribuire al pasto comune sotto l’albero, e dovrà dipendere dalla generosità delle altre donne rifugiate per la sua cena.
Negli ultimi mesi, i 300.000 rifugiati in Ciad che dipendono dal cibo del PAM hanno visto le loro razioni quotidiane ridotte da 2.100 chilocalorie per persona al giorno a circa 850 chilocalorie. Oltre 240.000 di loro sono profughi fuggiti dalla regione sudanese del Darfur e oggi vivono in 13 campi nel Ciad orientale.
A differenza degli altri 60.000 che soggiornano nei campi del sud, zona più fertile del Ciad, i rifugiati sudanesi che vivono nei secchi campi nel deserto dell’est non sono in grado di coltivare il proprio cibo per compensare il deficit alimentare. Per la maggior parte, rimangono totalmente dipendenti dal flusso di assistenza umanitaria.
Le donne rifugiate da Iridimi, Touloum e i campi profughi vicino a Iriba sono preoccupate per le conseguenze della crisi alimentare. Dicono che le razioni mensili di cibo distribuite nei campi non sono durate nemmeno una settimana. Stanno lottando per sfamare le proprie famiglie e pagare le tasse scolastiche per i loro figli.
UNHCR e PAM hanno avvertito la comunità internazionale per mesi circa l’impatto drammatico della carenza di cibo per i rifugiati.
Un’altra conseguenza è l’assenteismo nelle scuole dei campi profughi poichè i bambini lasciano la scuola per andare in cerca di lavoro nelle città vicine. Molti finiscono per trasportare merci per i commercianti locali nei giorni di mercato. “Oggi, solo 26 bambini su una classe di 59 vengono a scuola”, dice Abdel Alim Fadoul, insegnante nella scuola elementare di Iridimi. “Gli altri lavorano al mercato settimanale di Iriba. Se la situazione continua così, presto non ci saranno bambini nelle scuole”.
L’agricoltura è solo una scelta limitata per i rifugiati nell’arido deserto ad est del Ciad. Il terreno è asciutto, la pioggia è scarsa e l’accesso all’acqua è una sfida. Per aumentare la loro dieta, e compensare la mancanza di grano, alcuni rifugiati hanno fatto ricorso alla raccolta di frutti di bosco tossici, che devono essere messi a bagno per una settimana e poi pestati. L’ultima volta che la gente mangiava i frutti di bosco nel Ciad orientale è stato durante la carestia nel 1980.
Nel disperato tentativo di sfamare le loro famiglie, alcune donne ricorrono alla prostituzione.
“Ci sono ragazze che restano con noi, ma scompaiono di notte”, dice Fatima. “Ricevono telefonate e se ne vanno. Partono per incontrare gli uomini e ricevono denaro in cambio. Fanno molti più soldi di noi. Vanno via quando è buio e tornano prima della preghiera del mattino. Una ha dato alla luce un bambino”.
I rifugiati stanno anche cercando altre possibilità per guadagnare soldi, come cuocere il pane o fare il sapone. Ma le opzioni sono limitate.
“Siamo qui da molto tempo, ma non siamo in grado di essere autosufficienti”, dice Zacharia Ismael Nahar, un rifugiato sudanese nel campo di Touloum. “Siamo intrappolati dal clima e dall’ambiente. In caso contrario, come altri profughi, avremmo sviluppato soluzioni per prenderci cura di noi stessi. Ma qui, a causa del clima e dell’ambiente siamo dipendenti dagli aiuti umanitari”.