Majid sogna una buona istruzione per i suoi figli.

È fuggito dalla guerra in Iraq.

Majid, 31 anni: Questo era il nostro sogno numero uno. Volevamo che Rose e Baban, i nostri bambini, avessero una buona istruzione qui. Andranno in una buona scuola. Avranno un futuro migliore di quello che abbiamo avuto noi. Ci sentiamo al sicuro qui. È una sensazione terribile uscire di casa nel mio paese, in Iraq. Non sai mai quando ci potrebbe essere l’esplosione di un’autobomba.”

“Il momento in cui ci hanno detto che saremmo partiti per l’America è stato come una luce. Come una speranza, come una nuova vita.  Poche persone hanno questa opportunità. Non riesci ad immaginare il momento in cui andrai negli Stati Uniti e vivrai lì. È dura, ma devi rimanere positivo e concentrarti sui tuoi obiettivi. Ci vuole tempo, ma prima o poi ce la farai.”

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Majid e Shadan mostrano una fotografia dei loro amici e della loro famiglia in Iraq. E’ uno dei pochi ricordi che hanno portato con loro. “Non passa giorno senza che pensiamo alla nostra casa”, dice Majid. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

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Shadan aiuta i suoi bambini, Baban e Rose, a prepararsi per andare a scuola. I bambini faranno colazione a scuola come parte del programma “Head Start”. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

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Majid aiuta sua figlia Rose con i compiti di matematica. Rose frequenta la prima elementare in una scuola pubblica nella zona nord di Chicago. Per Majid e Shadan è molto importante che i loro figli ricevano una buona istruzione perchè credono che sia fondamentale per la loro vita. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

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Majid e sua moglie passano a prendere mobili e giochi per la stanza dei loro bambini. Layla e la sua famiglia (destra) si stanno trasferendo in una casa più piccola e sono contenti di trovare una buona sistemazione per i loro oggetti. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

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Mentre i bambini sono a scuola, Shadan frequenta un corso giornaliero di inglese nel Community Center dell’area di Howard per migliorare la lingua e conoscere nuove persone. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

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Majid lavora a tempo pieno alla Federal Mogul, un’azienda che produce ricambi per automobili a Chicago. © UNHCR/Maren Wickwire/Manifest Media

A day at the beach

Majid e sua moglie Shadan, con i loro figli Rose (7 anni) e Baban (4 anni) sono arrivati a Chicago, Illinois, negli Stati Uniti nel gennaio del 2015. Majid e la sua famiglia sono originari di Kirkuk, una città nel nord dell’Iraq, e sono molto riconoscenti per l’opportunità che hanno avuto di vivere negli Stati Uniti, dove hanno trovato sicurezza per la prima volta dopo tanti anni.

La vita in Iraq non è semplice. “Non è consentito dare ai tuoi figli nomi curdi. Anche la casa, non puoi intestarla a tuo nome. Dovresti cambiare la tua nazionalità. Ma a molte persone non piace questa idea. È molto dura cambiarla, anche se è solo un pezzo di carta. Dentro senti che è Dio che ti ha creato curdo. Dunque perché dovresti cambiare la tua nazionalità?”

Majid ha lavorato per una ONG americana in Iraq, con la quale ha aiutato le persone in situazione di bisogno.

“Lavoravo con i rifugiati che, a causa della guerra, arrivavano nella mia città. Davamo loro aiuti e assistenza. Aiutavo anche le vittime delle esplosioni di autobombe e le persone che avevano perso la loro abitazione a causa delle violenze. Andavamo lì, riparavamo i loro negozi, davamo loro delle sovvenzioni.”

Ma quando sono aumentati i pericoli di vivere a Kirkuk e molti dei suoi amici sono rimasti uccisi in esplosioni di autobombe, Majid ha realizzato che la sua famiglia non poteva più vivere al sicuro in Iraq.

Majid e Shadan sognavano sicurezza e una buona istruzione per i loro figli. “Questo era il nostro sogno numero uno. Qui hanno una buona istruzione, frequenteranno una buona scuola, avranno una vita migliore di quella che abbiamo avuto noi. Ci sentiamo al sicuro qui. È una sensazione terribile uscire di casa nel mio paese, in Iraq. Non sai mai quando ci potrebbe essere l’esplosione di un’autobomba.”

Ci sono voluti quattro anni perchè Majid e la sua famiglia svolgessero tutte le procedure necessarie per il reinsediamento. Sono dovuti andare a Baghdad due volte per colloqui all’Ambasciata degli Stati Uniti, viaggiando lungo strade molto pericolose, controllate da gruppi armati. Majid descrive il momento in cui hanno finalmente saputo di essere stati inseriti nel programma di reinsediamento, come “una luce.”

“È come una speranza, è come una nuova vita. Poche persone hanno questa opportunità. Non riesci ad immaginare quel momento in cui andrai negli Stati Uniti e vivrai lì.”

Majid era determinato a trovare lavoro appena arrivato negli USA. Ha cercato aiuto presso l’agenzia di reinsediamento per rifugiati della sua nuova comunità. “Sono andato lì e ho detto ‘Per favore, aiutatemi a trovare un lavoro, sono stanco di stare a casa. ’” Dopo due mesi, Majid ha trovato un lavoro in un’azienda di ricambi per automobili, e da allora lavora lì. È felice di potersi prendere di nuovo cura della sua famiglia.

Oltre a lavorare, Majid e la sua famiglia stanno frequentando corsi di formazione, vogliono migliorare le loro vita e sperano in un futuro radioso per tutti loro. Sia Rose che Baban amano molto andare a scuola. Stanno imparando l’inglese velocemente e, nel frattempo, si fanno nuovi amici. Shadan frequenta quotidianamente lezioni di inglese e si sta impegnando per poter diventare un’insegnante di storia. Majid ha in mente di studiare “Gestione di ONG” e poter di nuovo mettere in pratica quanto ha imparato nel suo lavoro sul campo a Kirkuk. Nuovi ambienti portano nuove sfide, ma Majid incoraggia la sua famiglia e quella degli altri rifugiati a perseverare. “È dura, ma rimanete positivi e concentratevi sull’obiettivo,” dice. “Ci vuole tempo, ma alla fine ce la farete.”

Majid e la sua famiglia possono ora vivere al sicuro e sentirsi orgogliosi della loro identità curda. “Quando entri in contatto con una nuova nazione, con un altro essere umano, con persone diverse, senti che siamo tutti uguali. Ti guardano non in base alla tua origine, religione, alla tua pelle o altro. Tutti ti trattano molto normalmente, come un essere umano.”

Articolo e video a cura di Maren Wickwire


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