L’UNHCR CHIEDE ALTERNATIVE PIÙ SICURE ALLE PERICOLOSE TRAVERSATE VIA MARE NELLA BAIA DEL BENGALA
Pubblicato il 23 febbraio 2016 alle 8:00
Un nuovo rapporto dell’UNHCR ha rilevato che nell’anno passato i movimenti misti via mare nel Sud Est Asiatico sono stati tre volte più mortali che nel Mediterraneo – evidenziando la necessità di maggiore cooperazione tra gli Stati coinvolti nelle operazioni di salvataggio.
L’ultimo rapporto “Flussi Misti via mare nel Sud Est Asiatico” fornisce dati chiave e trend rispetto ai movimenti nell’Oceano Indiano nel 2015. Si stima che in tutta la regione circa 33.600 rifugiati e migranti di diverse nazionalità siano saliti su imbarcazioni di trafficanti, tra cui: 32.600 nella Baia del Bengala e nel Mare delle Andamane, circa 700 nello Stretto di Malacca e oltre 200 che sono stati intercettati in viaggio verso l’Australia.
La maggior parte dei passeggeri nella Baia del Bengala e nel Mare delle Andamane erano Rohingya e cittadini del Bangladesh. I numeri raccontano una storia fatta di due stagioni: la prima metà del 2015 ha visto le stime più alte di sempre di partenze (31.000), mentre la seconda metà dell’anno (con circa 1.600 partenze) è stata molto più tranquilla rispetto agli anni precedenti. Combinate insieme, le partenze dell’intero anno nella Baia del Bengala sono state appena sopra la metà di quelle record dell’anno precedente.
Questa diminuzione può essere attribuita a diversi fattori che includono: la scoperta di fosse comuni lungo il confine terrestre tra Tailandia e Malesia con oltre 200 cadaveri presumibilmente di persone arrivate in precedenza, le misure governative contro le reti di trafficanti e il controllo nei punti tradizionali di partenza e di arrivo. Quest’ultimo fattore, in particolare, ha causato l’abbandono dei passeggeri in mare da parte dei trafficanti, creando un “ping pong” di imbarcazioni che si è concluso con il salvataggio, lo sbarco di migliaia di persone e la loro conseguente e protratta detenzione in alcuni paesi. A seguire è venuta la s
tagione dei monsoni, che riduce sempre le navigazioni.
Nonostante i numeri più bassi, il numero di tragedie in queste acque nel 2015 è stato comunque tre volte più alto che nel Mar Mediterraneo. Si stima che circa 370 persone abbiano perso la vita nella Baia del Bengala e nel Mare delle Andamane durante l’anno – non a causa di naufragi e annegamento ma per le conseguenze dei maltrattamenti e delle malattia portati da trafficanti che abusano e in molti casi uccidono i passeggeri impunemente. Il numero di morti include anche coloro che sono rimasti uccisi negli scontri per la scarsità di provviste su un’imbarcazione a cui era stato impedito per due volte di attraccare. Alcune di queste morti si sarebbero potute evitare garantendo operazioni di sbarco tempestive.
Secondo quanto riportato i media, 263 persone distribuite su nove barche hanno provato a raggiungere l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2015. Partendo dall’Indonesia, dallo Sri Lanka e dal Viet Nam, a queste imbarcazioni che portavano passeggeri del Bangladesh, dell’India, dell’Iraq, della Birmania/Myanmar, del Nepal, del Pakistan, dello Sri Lanka e del Viet Nam è stato infine negato lo sbarco in Australia dalle autorità australiane e indonesiane.
L’UNHCR crede che finché le cause scatenanti di questi movimenti forzati non saranno affrontate, le persone continueranno a rischiare le proprie vite su imbarcazioni gestite da trafficanti, in cerca di sicurezza e stabilità in altri paesi.
Nel 2015 i governi nella regione hanno dichiarato l’intenzione di affrontare questa sfida che riguarda tutta la regione attraverso una serie di incontri ad alto livello. Rimane l’urgente necessità che gli Stati coinvolti mettano in campo misure concrete per coordinare le procedure di salvataggio in mare, garantire che le operazioni di sbarco che sono prevedibili avvengano in modo sicuro, così come sistemi di accoglienza e di controllo adeguati siano previsti all’arrivo.
Alle persone che hanno abbandonato la loro casa e non possono farvi ritorno per motivi di protezione, dovrebbe essere garantito rifugio temporaneo e accesso ai diritti e servizi fondamentali, mentre si cercano soluzioni a lungo termine.
Per ridurre le morti in mare, devono essere aperti canali sicuri e legali per coloro che provengono da situazioni difficili nei paesi d’origine, tra cui programmi di migrazione per motivi di lavoro, ricongiungimento famigliare. L’UNHCR spera che piani di immigrazione per motivi di lavoro possano anche essere attuati per i Rohingya che si trovano già in paesi importatori di manodopera, consentendo loro di contribuire all’economia del paese ospitante e di origine.
Il prossimo mese, l’Incontro Ministeriale del Forum di Bali sarà l’occasione giusta per fare progressi su queste questioni.
Allo stesso tempo devono essere affrontate le cause alla radice. Una revoca delle restrizioni esistenti sulla libertà di movimento e accesso ai servizi nello Stato di Rakhine in Birmania/Myanmar consisterebbe a migliaia di persone di vivere una vita più normale e rendere meno probabile che rischino di intraprendere pericolosi viaggi via mare.
L’UNHCR sta anche guardando con interesse ai piani del governo del Bangladesh di registrare centinaia di migliaia di Rohingya nel Bangladesh sudorientale. Speriamo che questo esercizio avrà come risultato un miglioramento della documentazione e dell’accesso ai servizi.
Si stima che quasi 170.000 persone Rohingya e del Bangladesh abbiano intrapreso il pericoloso viaggio dalla Baia del Bengala dal 2012. Alcune delle loro storie sono raccontate su http://tracks.unhcr.org/2016/02/separated-by-the-sea/.